Scrivere la Danza 2023

Scrivere la Danza 2023

FINO ALL'OSSO

Questa del 2023 è stata un'edizione abbastanza bizzarra di Scrivere la danza. Con Graziano Graziani avevamo individuato due spettacoli da “usare” per il nostro esperimento/gioco che è ormai diventato un appuntamento fisso a Tendance: El Pueblo Unido Jamás Será Vencido di Wooshing Machine con le coreografie di Alessandro Bernardeschi e Prometeo? di PinDoc, con le coreografie di Lorenzo Covello, in scena rispettivamente il 17 e 18 maggio al Teatro Fellini di Pontinia. I due lavori sarebbero stati poi visti e recensiti, il primo da Ginevra Lamberti, scrittrice, e Walter Porcedda, critico di danza, e il secondo da Gisella Blanco, poetessa, e Carmelo Zapparrata, anche lui critico di danza. Infine, in un incontro, aperto al pubblico e mandato in streaming sui social del festival, sempre al Teatro fellini il 19 maggio, gli/le autori/trici degli scritti sarebbero stati a loro volta “criticati” da Graziano Graziani, con la complicità di un software che indaga tra i testi e le parole, individua comunanze, opposizioni, analizza il grado di comprensibilità. Questo sarebbe dovuto accadere. Ma la prima sera dI Tendance, dopo circa una ventina di minuti che lo spettacolo della compagnia belga Wooshing Machine era iniziato, succede qualcosa di terribile e inaspettato. Uno dei danzatori in scena appoggia male un braccio durante una caduta. Si rialza tenendo il braccio con la mano e avanza verso il proscenio. Si ferma sotto una luce, “mi sono fatto male” dice, e anche “c'è un dottore in sala?”. Nessuno si muove, nessuno parla. Lo stesso pensiero credo che attraversi le menti di ogni spettatore: sarà finzione scenica, sicuramente. Poi lo vedo. L'osso del gomito non è dove dovrebbe essere. Sporge in una posizione innaturale. E mentre si accendono le luci e tutti corriamo verso il palco, chi cerca del ghiaccio, chi chiama l'ambulanza, un pensiero assurdo mi attraversa la mente: perché hanno tradotto in Bones and All il bellissimo titolo Fino all'osso? Lo spettacolo finisce lì, il pubblico se ne va frastornato e Il performer viene accompagnato all'ospedale, dove scoprirà, con nostro grande sollievo che era solo una lussazione. I critici vedranno in video la seconda parte, inaugurando così una versione ibrida di Scrivere la danza, parte in presenza e parte in video.

Danila Blasi

 

A guardarlo dall’alto delle sue cinque edizioni, possiamo dire che il progetto “Scrivere la danza” sta prendendo una piega inaspettata. L’idea di base, nata da un’intuizione condivisa da Danila Blasi e me, era verificare come uno sguardo esterno alla danza recepisce l’immagine coreografica, la drammaturgia e in definitiva “l’esperienza” dello spettacolo di danza, mettendo a confronto quel racconto con il racconto di chi la danza la osserva e descrive per professione. Ovviamente, per dare “armi pari” a contesti impari abbiamo rivolto il nostro invito a scrittori e scrittrici, a persone cioè che frequentano la parola in modo professionale, che si interrogano sulla resa di ciò che scrivono e che lo fanno con un afflato artistico. In queste cinque edizioni si sono confrontati approcci molto diversi alla scrittura, cosa prevedibile e in fondo anche prevista, poiché gli inviti alle autrici e agli autori hanno seguito un percorso giustamente spurio, fatto di intuizioni, che restituisce percorso e immaginari anche molto distanti tra loro. Ciò che invece era imprevisto, e che sta emergendo con forza, è come la risonanza dell’immagina coreografica sia più “oggettiva”, e quindi leggibile, di quanto ci aspettavamo. Per chi opera nel campo dello spettacolo contemporaneo questa è un’ambizione sempre presente, ma che non sempre si oggettiva. Nelle ultime edizioni, e sicuramente in questa del 2023 a Pontinia, questa leggibilità è emersa ancora una volta con forza, ed è una notizia buona ma soprattutto interessante. Viviamo in un mondo di immaginari fluidi, multiformi, ma non incomunicanti – e anzi, la grammatica della danza sembra davvero essersi indirizzata verso una sintesi espressiva che fa a tutti gli effetti parte di un immaginario condiviso. Quello che invece può cambiare, da uno sguardo vergine a uno professionalizzato, ma anche – superando questa distinzione – da uno sguardo all’altro, è la “storia” che può esserci dietro l’immagine. È come se, allestito il percorso coreografico, si dipanassero percorsi possibili, tutti evidentemente possibili e da esplorare, e ogni sguardo scegliesse a cosa sintonizzarsi, quale percorso compiere. E, ancora una volta, anche questa è una notizia buona ma soprattutto interessante.
Quest’anno a confrontarsi sugli spettacoli di Tendance sono state invitate una scrittrice, Ginevra Lamberti, e una poetessa, Gisella Blanco, che hanno osservato e raccontato due lavori affidati anche allo sguardo di Walter Porcedda e Carmelo Zapparrata. Il primo lavoro oggetto di sguardo incrociato è stato lo spettacolo “El pueblo unido jamás será vencido” della compagnia belga Wooshing Machine, che i due autori a cui è stato affidato – Ginevra Lamberti e Walter Porcedda – hanno potuto vedere in modo integrale solamente in video. Uno dei danzatori, Alessandro Bernardeschi, ha infatti subito un infortunio dopo circa venti minuti di spettacolo e la compagnia ha dovuto interrompere la rappresentazione. Questo elemento imprevisto è stato affrontato in modo molto differente dai due autori: Porcedda ha scelto di scrivere un cappello che rendesse noto il fatto, pur andando poi a recensire lo spettacolo come un insieme organico, “come se lo avesse visto” potremmo dire, senza l’interruzione del passaggio dalla scena allo schermo – ma riportando comunque l’accaduto nel suo testo di critica. Ginevra Lamberti ha preferito lasciare questo evento come allusione, in chiusura del suo pezzo (dove si parla di un “rumore di legno spezzato” e di “arto piegato come sono piegate le cose rotte”); non proprio una reticenza, quindi, piuttosto il tentativo di inglobare nell’esperienza di ciò che si è visto anche quella cesura inaspettata, non come un inciampo che interrompe il tessuto pensato e provato della coreografia, ma come un dispositivo simbolico che va ad aggiungersi al racconto. Già, perché la danza di Wooshing Machine si snoda lungo elementi simbolici della storia della sinistra internazionale, evocata già dal titolo di un celebre brano degli Inti Illimani. A differenza di quanto accaduto nelle edizioni precedenti, è l’articolo di Porcedda ad essere più esplicito nel mettere in evidenza i segni, i simboli, andando a creare quasi un elenco di riferimenti dello spettacolo che allo scrivente è tutt’altro che neutro – tanto che apre l’articolo con una critica ai residui di quella storia di libertà e presa di parola: oggi un nucleo di Peter Pan coi capelli bianchi, di anziani che non vogliono crescere, legati al lessico del ribellismo come una straniante operazione nostalgia, ma alla prova delle cosa “cinici e indifferenti”. Ginevra Lamberti si lancia invece in un affascinante corpo a corpo con l’entità evocata dallo spettacolo – “esso, il popolo” – e utilizza quindi gli elementi scenici come reagenti, che non vanno raccontati, preferendo evidenziare le proprie reazioni, le proprie disillusioni e i sensi di colpa, di fronte ad una storia collettiva dal cui fallimento ci si sente tutti chiamati in causa, pur avendo in mano tutti gli elementi di una responsabilità tutt’altro che personale.
Il fatto che l’articolo di Lamberti sia più “evocativo” e meno “informativo” di quello di Porcedda, dicevamo, ribalta in parte la tendenza riscontrata in queste cinque edizioni. Ma, appunto, solo in parte: perché attraverso l’analisi testuale degli elaborati – fatta, sempre a mo’ di gioco, con il software elaborato da La Sapienza, a partire da uno studio varato dal linguista Tullio De Mauro – si evidenzia che mentre la scrittura dei due critici coinvolti è molto comprensibile, ma necessità di competenze cognitive di livello almeno post liceale / universitario, il testo di Ginevra Lamberti opera un’interessate cortocircuito: essendo senza riferimenti complessi è altamente leggibile, anche da chi possiede un’istruzione inferiore – ed è dunque accessibile, scorrevole, leggero secondo i dettami di Calvino – ma risulta, alla lettura, altamente evocativo. È in grado, quindi, di contenere più livelli di lettura, di dipanarsi a seconda dello sguardo e dei riferimenti del lettore in direzioni diverse, forse proprio come risultato della scelta di un “io” reagente non banalmente raccontato, ma sottinteso, che rende più privato e stratificato il resoconto di una coreografia altrove raccontata, sì nel dettaglio, ma con un linguaggio più analitico (anche se partecipato).
Andando a mettere in fila gli elaborati di Gisella Blanco e Carmelo Zapparrata attorno allo spettacolo di Lorenzo Covello “Prometeo?”, troviamo anche qui coordinate simili al discorso precedente per quanto riguarda il racconto critico, naturalmente distante per atmosfera e referente rispetto all’elaborato di Gisella Blanco, poetessa, che sceglie di riportare il proprio ragionamento e la propria esperienza in forma di componimento poetico. Non ha senso mettere a paragone due scritture tanto diverse, ovviamente, ma è interessante notare che sia nell’una che nell’altra emerge un afflato “critico” nel senso più genuino del termine. Zapparrata mescola una prosa che cerca il riferimento elegante, che vuole tributare il lavoro di Covello ma anche dialogare con il repertorio classico che si presume il lettore condivida, con una serie di termini più tecnici – ma non tecnicistici – che riportano quel linguaggio a una dimensione di analisi tipica del giornalismo specializzato. Come nel caso di Porcedda, quindi, il suo è un testo che necessità di un minimo di consapevolezza, di un’istruzione universitaria o quasi, per poter essere fruito al meglio – ferma restando una prosa chiara, per quanto non priva di una ricerca dell’effetto. Gisella Blanco presenta invece un testo molto ispirato e, al contempo, molto leggibile, che attraverso una concatenazione di terzine descrive l’immagine acquatica che Covello ha allestito per il suo Prometeo dubitativo, con il punto interrogativo. E dopo una serie di immagini poetiche, che descrivono ma allo stesso tempo reagiscono alle immagini coreografiche, Blanco si lancia in considerazioni di critica pura (“Si creda o no alla resistenza di una storia, alla verosimiglianza del titolo, alla pronuncia del nome, l’apice incontra la fine, rivive nel discorso muto, lascia che gli allineamenti diventino esempi…”). Ma è un dialogo critico che serve da snodo a una considerazione finale, dove i termini corporei – iridi, gambe, lingua, pelle – lasciano spazio a considerazioni che poggiano su terminologie più astratte – memoria, sacro, sentirsi illesi – che racchiudono (o forse fanno deflagrare) l’immagine in una cornice interpretativa che costituisce anche l’apice del componimento poetico, che trova poi una sua chiusura di considerazione forse più universale (“come se dall’origine non ci si possa rialzare”) che posiziona questa poesia in bilico tra l’osservazione dell’esterno, dell’oggetto coreografico, e la risonanza interiore.
Chiudo con un’annotazione: è quasi scontato che poesia e teatro parlino una lingua comune, lo era forse di più negli anni Settanta, oggi forse abbiamo smarrito quella traccia che però resta, tra l’origine nell’oralità e la capacità di distillare immagini attraverso le parole. Va registrato che proprio la restituzione poetica dell’immagine coreografica ha suscitato, tra chi era presente all’incontro di Pontina, un particolare entusiasmo – sia, nel caso di Blanco, più aderente a modello e forma della scrittura poetica, sia nel caso di Lamberti, che comunque ha usato la prosa per restituire una visione a cavallo tra riflessione politica e sguardo impressionista.

Graziano Graziani

 


Su "El Pueblo Unido Jamás Será Vencido" (di Ginevra Lamberti)

Noi andiamo a disgregarci. Prima però ci aggreghiamo. Noi siamo esso, il popolo. Il popolo ha una serie di caratteristiche sue peculiari, per esempio ha il potere e non sarà mai vinto. All’occorrenza può essere epico e instillare emozioni forti. Il popolo è iperaccessoriato. Esso, il popolo, si è a lungo spaccato la schiena per la promessa di uno o più mondi migliori. In assenza di fame, ha non di rado rappresentato la promessa di non restare da soli. Si andava a volte dal popolo e gli si diceva: Se solo potessi sciogliermi nell’altro senza più essere io, se solo potessi spegnere il desiderio di fare a pezzi l’altro e fare invece a pezzi me al solo preciso fine di impastare le briciole residue con l’unità. O anche si aggiungeva (e qui la voce si faceva sussurro) se solo potessi giustificare la mia avidità di potere con la scusa del popolo, con la scusa del loro, con la scusa del noi. Mi lavo un attimo le mani, poi ne riparliamo.

Invece io sono io e io sono diventato un elettore medio, ho sostituito il rosso con qualsiasi grigio possibile. Esso, il popolo, comunque mi risponde. Mentre lo ascolto in me alberga la confusione perché ha circa sei braccia e tre corpi e io me ne aspettavo molti di più. A ogni modo mi dicono (ovvero mi dice, perché pure se io vedo insiemi e sottoinsiemi formati da tre e sei elementi ciascuno, in ogni caso rimane esso, il popolo): Dobbiamo andare a disgregarci. Prima però ci aggreghiamo. Signor popolo, nonostante il grigio uniforme che mi copre io sono un entusiasta e desidero seguirla. Tuttavia già vedo accenni di ossimoro in questo suo invito. Perché se davvero sei esso, il popolo, ovvero se sei uno, com’è possibile che nello stesso esatto momento mi dici andiamo di qua e andiamo di là. Alziamoci e stiamo per terra. Abbandoniamoci allo spleen e alla vacuità dell’esistenza accasciandoci come calzini senza vita e accendiamoci di frenesia al fuoco di tutte le cose che ancora dobbiamo fare e possiamo costruire. Io, popolo, sotto a questa crosta di mediocrità colpevole, mi sento molto confuso. Mi pare inoltre che tu, cioè voi, o meglio ancora esso, il popolo, mi stia manipolando con il senso di colpa. Cambia di abito e di capelli e di accessori e di obiettivi e di riferimenti e di gusti musicali e poi fa finta che sia rimasto tutto uguale. Esso, il popolo, forse mi sta facendo gaslighting. A riprova di questo, torna a blandirmi come e più di prima, e dice Se solo tu tornassi a quel desiderio originario di fonderti e diventare me, cioè noi, capiresti tutto con grande chiarezza. Dismetteresti ogni dubbio e i decenni di frammentazione polverizzazione atomizzazione che in un passato non troppo lontano ti hanno condotto verso le più estreme perversioni dell’animo umano, in genere espresse sotto forma di voto a partiti che portavano il nome di animali. Era il tramonto degli anni Novanta, ricorda il popolo. Con un accenno di contrizione mi concede che in effetti era un momento difficile, il corpo del padre del popolo non era più caldo da quasi quindici anni.

Io, che sono ancora io e per questo mi sento in difetto, finisco di ascoltare quello che ha da dire e mi sento convinto e quasi partecipe. Forse è perché nei decenni il popolo ha sviluppato un senso dell’umorismo sofisticato e un talento nell’abbinare i maglioncini, ma sono smosso nella mia interiorità da qualcosa di simile alla corrispondenza di amorosi sensi. Guarderei il popolo negli occhi se non fosse che di occhi ne ha sei e non so dove guardare. Comunque decido che è tempo di crederci, e ci credo al punto da osservarlo nel suo complesso e non vedere più l’inganno ma solo l’unità, senonché un rumore di legno spezzato mi strappa alla visione. Di nuovo i corpi sono tre e gli arti inferiori e superiori sono sei + sei. Uno di questi è piegato nel modo in cui si piegano le cose rotte e allora comprendo che quello che rende il popolo tale è che sempre veniamo vinti e sempre veniamo vinti insieme.