Scrivere la Danza 2021

Scrivere la Danza 2021

E così siamo arrivati alla quarta edizione di Scrivere la danza. Per quest'anno abbiamo scelto due spettacoli di due coreografe, una italiana, Alessandra Cristiani e una francese, Karine Ponties, che si erano incontrate nel 2020 in Belgio, a Bruxelles, dove ha sede Dame de Pic, la compagnia di Karine Ponties, per un progetto scambi internazionali finanziato del MiC, Boarding Pass. Le due coreografe avrebbero dovuto essere ospiti di Tendance 2020. Ma in piena pandemia i viaggi erano una chimera e così le abbiamo rinvitate nel 2021. E abbiamo voluto prolungare quel rapporto creatosi un anno prima e bruscamente interrotto. Un rapporto bello e fruttuoso, di reciproco interesse e umanamente pieno di sorprese. Le abbiamo viste in scena e abbiamo chiamato a scrivere di loro. E loro hanno conquistato il nostro pubblico, i critici e gli scrittori, con la forza comunicativa dei loro spettacoli.

Danila Blasi

 

Nell’edizione 2021 di “Scrivere la Danza” si sono confrontati diversi approcci alla scrittura, non soltanto perché due delle autrici hanno una frequentazione assidua e professionale con la danza mentre gli altri due autori la conoscono, con differente intensità, solo dal punto di vista dello spettatore; c’è anche una diversa prospettiva di partenza che rende peculiare ciascuno sguardo. Sul fronte “critico” Donatella Bertozzi è attiva come giornalista, mentre Carla Romana Antolini si occupa di organizzazione e comunicazione; sul fronte della scrittura creativa, invece, Francesco Pacifico è un romanziere e Maria Grazia Calandrone una poetessa.

Anche in questa edizione di “Scrivere la Danza” si conferma la capacità prismatica di un confronto tra scritture diverse. Per raccontare lo spettacolo di Alessandra Cristiani “Corpus delicti”, ispirato alle opere di Egon Schiele, Carla Romana Antolini sceglie uno stile che tiene assieme il racconto di un’emozione di spettatrice con l’esigenza di puntualizzare alcuni aspetti dell’operazione, che vanno dal rapporto con il pittore austriaco fino all’evoluzione del percorso di ricerca di Alessandra Cristiani, di cui questa tappa segnerebbe un’evoluzione precisa, in dialogo con l’evoluzione postpandemica della nostra sensibilità, lontana dall’antropocentrismo novecentesco e pronta a ragionare sulla “esposizione della fragilità” del corpo in modo nuovo.

Maria Grazia Calandrone utilizza invece la lingua della poesia anche in modo formale, costruendo un componimento – “Corpus Cristiani” – che scandisce in modo preciso e vivido l’epifania di un corppo in mostra nella cornice dell’opera, un corpo “senza ossa”, “fatto di spigoli”, “rattrappito e dilatato”, in grado quindi in incarnare tutti gli aspetti più essenziali dell’essere corpo ma grazie alla sua capacità di abbandonare “la logica del corpo”. Si parla anche qui di “origine della specie”, di un proiettarsi oltre l’individualità, che con parole e temperature molto diverse sottolinea un concetto simile a quello evidenziato da Carla Romana Antolini nel suo pezzo.

“Corpo” è, inevitabilmente la parola più citata in entrambi i pezzi, ma ciò che lo specifica cambia dall’una all’altra scrittura: per Antolini il centro dell’opera, il senso stesso che la sostiene, è “l’esposizione” – parola che torna più volte – così come il rapporto con il “mondo” e la “natura”. Concetti più ampi, cornici di senso che riportano il ragionamento a un quadro speculativo, dove si aggiungono parole come “performance”, “ricerca”, “scena”, che danno il senso dello sforzo di inquadrare quanto visto in una precisa disciplina con i suoi codici. Per Calandrone il corpo presente dialoga con l’assenza (“senza” è un’altra parola molto usata) e con elementi materici come “fuoco”, “luce”, “ombra”. Anche qui compaiono concetti cornice come “specie” e “origine”, ma sempre ricondotti alla matericità della forma “animale”, arcaica come lo spazio della “caverna”, incarnato come il ritmo del “respiro”.

 

La coreografa Karine Ponties e il lighting designer Guillaume Toussaint Fromentin hanno portato in scena due assoli intitolati “Fovea” e “Benedetto Pacifico” – e questo secondo titolo è, scherzosamente, al centro della scelta di abbinare lo scrittore Francesco Pacifico con la critica di danza Donatella Bertozzi. Anche in questa rifrazione della scrittura appare evidente come l’esigenza deontologica della critica – che vuole anzitutto fornire delle coordinate precise di quanto avvenuto in scena, per inquadrare quella che si concepisce una vera e propria “cronaca”, per quanto scritta con vertigine espressiva e partecipativa, di modo da lasciare uno scritto che sia in qualche modo anche “documento” – sia uno degli elementi su cui si plasma la scrittura critica rispetto a quella artistica. Bertozzi comincia subito mettendo in chiaro quanto l’elemento dell’abilità dell’artista sia centrale nella costruzione dei due assoli e lo fa utilizzando abbondanti riferimenti al teatro: “il buio è essenziale a teatro”; il buio è elemento “sensibile, malleabile, cedevole, duttile” che aiuta la luce a costruire la forma e la visione; la scrittura del gesto, che dialoga con il buio e la luce e sfrutta il loro continuo bilanciamento è “raffinata”, così come il disvelamento buio-luce è “calibratissimo”. Ma non c’è solo l’esigenza di restituire l’arte – e la competenza – che c’è dietro la danza; l’articolo di Bertozzi vuole tenere assieme questo aspetto con la dimensione emozionale dello spettatore (“Lascia senza fiato, quest’uomo sorprendente”) e l’amplificarsi di questa emozione nell’emozione degli altri (“Applausi e chiamate innumerevoli del pubblico”).

“Il danzatore fa un confronto con la morte, mi sembra evidente” – riflette Pacifico, partendo dalla difficoltà a respirare con una mascherina addosso (condizione necessaria in pandemia). “Ed è ciò che mi leva l’aria; ma al tempo stesso mi conforta che il suo confronto mi appaia così naturale”. È un dato episodico, certo; ma anche una sintesi di ciò che in fondo sappiamo essere uno dei detonatori che ci spinge a fare e vedere danza e teatro.

Graziano Graziani

 

Su Corpus Delicti - da Egon Schiele di Alessandra Cristiani

di Carla Romana Antolini

Impossibile non pensare a Schiele guardando le performance di Alessandra Cristiani, per le forme non armoniche che assume il corpo che espone se stesso, per quell’apparire che non descrive e non offre alcun riferimento storico o sociale, per come il corpo della danzatrice diviene in scena, specchio e riflesso di luci e colori per diventare altro da se, ma anche per il nudo in scena, o sulla tela, che non vuole attrarre, né tanto meno sedurre, ma sembra piuttosto non interessarsi a chi fruisce l’atto scenico, ma si esprime quasi come un monito che sembra dichiarare “al principio era il corpo”, e da quello dobbiamo ripartire.

 

Corpus Cristiani

di Maria Grazia Calandrone

Corpo che parla dell’origine della specie, corpo che si muove come ombra dell’ombra nella caverna platonica. Ancestrale, originario. Questo corpo approfitta della sua storia per raccontare la storia di una specie e trasformarsi, da corpo singolo, in vita collettiva.

 

Senza Titolo

di Francesco Pacifico

È la prima volta che scrivo di danza dopo nove anni che la guardo. Avevo trentacinque anni quando ho cominciato e ne ho quarantaquattro oggi che comincio a scriverne.

 

 

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