Scrivere la Danza 2019

Scrivere la Danza 2019

In questa ultima edizione di TenDance abbiamo ospitato la seconda edizione di “Scrivere la danza”, un progetto che chiama tre scrittori, digiuni di danza, a vedere tre spettacoli e raccontarli con il loro linguaggio, per poi mettere i risultati a confronto con la lingua della critica specialistica durante un incontro pubblico.

Intro alla seconda edizione di “Scrivere la danza” (uno sguardo volutamente di genere...) di Danila Blasi

L'obiettivo è quello di capire se i linguaggi si possono ibridare per rendere il racconto della danza accessibile anche a chi non ne conosce ancora i linguaggi, senza per questo perdere di intensità.
La scelta degli spettacoli è affidata agli scrittori, che non potendo scegliere per diretta conoscenza del coreografo, si affidano al titolo o alla sinossi o all'immagine dello spettacolo.
Il caso ha voluto che quest'anno due scrittrici, donne, Gaja Cenciarelli e Carmen Pellegrino, rispettivamente accoppiate con Simone Nebbia e Roberto Giambrone, scegliessero due lavori che vedevano in scena danzatrici, donne.
Per la coppia Cenciarelli/Nebbia si trattava di “Yes, of course it hurts” di Spellbound, un lavoro che vede in scena cinque danzatrici coreografate da Mauro Astolfi.
Pellegrino e Giambrone hanno invece visto scritto di “Mutamenti” di Isabella Giustina, coreografa ed inteprete del pezzo.
Mentre Orso Tosco, in coppia con Enrico Pastore ha visto e commentato “Lunatico” di e con Massimiliano Balduzzi.
Nell'analizzare i loro testi, al di là delle distanze e delle vicinanze, evidenti nella scelta dei termini, nell'utilizzo delle parole, la cosa che più mi è saltata all'occhio è stato il punto di vista.
Come era ovvio quello degli scrittori era, e non poteva essere altrimenti, un punto di vista squisitamente personale,
Ma con una differenza sostanziale. Orso Tosco, da scrittore bisognoso di narrazione, inventa una storia, descrive una vita per quel bizzarro personaggio che Balduzzi mette in scena. Ma come i tre critici mantiene una distanza emotiva. Quel personaggio non è lui, non gli assomiglia. Nessuna catarsi insomma.
Al contrario Cenciarelli e Pellegrino, in un processo totalmente empatico si identificano con le danzatrici, ci parlano, le chiamano, riconoscono comuni dolori e comuni gioie. “Da donna a donna” scrive Pellegrino. “Per tutte arriva il momento di aggrapparsi a un’altra donna per salvarsi” scrive Cenciarelli.
Punti di vista diversi, punti di vista legati al genere? Forse...
Qui sotto trovate i sei articoli e l'analisi che ne ha fatto Graziano Graziani partendo dalle parole usate.
Buona lettura

 

Spellbound - “Yes of course it hurts”

di Gaja Cenciarelli

Il buio, il silenzio, una donna all’angolo. Sì, certo, fa male. E tuttavia, la donna si stacca dalla quinta e inizia a muoversi nello spazio, inizia finalmente a occuparlo, quello spazio.

 

di Simone Nebbia

Solo il dolore, per paradosso, esprime con chiarezza ineludibile il corpo vivo, nel punto esatto in cui qualcosa muore. Yes, of course it hurts, della Compagnia Spellbound, si muove lungo un crinale di specificità linguistica, interpretando la danza come vera e propria scrittura con il corpo e sul corpo.

 

Isabella Giustina - “Mutamenti”

di Carmen Pellegrino

Il corpo: spazio aperto, campo di battaglia.
È in corso una collisione tra gli eventi e il linguaggio.
Non c’è ragione, dicono, per cui la lingua non possa rendere la realtà, anche quella combinata in un corpo.

 

di Roberto Giambrone

“La vita è un incessante, perenne mutamento”, sostiene la giovane danzatrice e coreografa Isabella Giustina, che al tema ha dedicato l’assolo Mutamenti, vincitore del Premio Tendance 2018.

 

Massimiliano Balduzzi - “Lunatico”

di Orso Toscoo

Nell’Ottobre del 1974 George Perec trascorre tre giorni di fila dentro un caffè di Place Saint-Sulpice, a Parigi. Ha intenzioni pericolose. Si è messo in testa di voler esaurire il luogo che lo ospita.

 

di Enrico Pastore

Dal buio emerge un bisbiglio. Flebile, quasi impercettibile. E poi la luce, dapprima leggera, in un delicato crescendo a scolpire l'emergere del corpo portatore di una vocalità sempre più cangiante e ricca.


Scrivere la danza, un'analisi di Graziano Graziani

Scrivere la danza è una questione di prospettiva, sguardo e parole. Questa seconda edizione del progetto – un piccolo esperimento in cui chiediamo a degli scrittori di farsi un po’ critici, raccontando uno spettacolo che hanno visto a TenDance – lo conferma in pieno. Se alcune parole di base – come “corpo”, “movimento”, “danzatrice” – sono le stesse che utilizzano i critici di mestiere per descrivere gli elementi dei tre spettacoli presi in considerazione, l’andamento del racconto prende strade decisamente differenti. La visione, che negli articoli dei professionisti della critica teatrale e di danza è inserita in un contesto stratificato di segni, di movimenti e di relazioni con la storia recente e meno recente della danza contemporanea, a cospetto degli scrittori diventa un’epifania per immagini alla quale reagire: scrivendo come risposta a ciò che si è visto, o addirittura immaginando ciò che c’è dietro un’immagine coreografica – una storia, un intreccio, una questione – lasciando correre libera la fantasia.

Nel caso di “Yes, of course it hurts” della Compagnia Spellbound, Simone Nebbia propone un’analisi molto lineare, che dall’ispirazione del titolo – una poesia di Karin Boye – traccia i presupposti di un lavoro coreografico che oscilla tra “tensione” e “liberazione”, ne descrive gli elementi coniugando termini più tecnici (“sculture corporee”, “aspetto plastico”, “performativo”, “espressivo”) con altri più evocativi (“raccoglimento intimo”, “sensualità”, “bellezza”, “sofferenza”) che servono a leggere l’aspetto più poetico dell’opera. Le considerazioni tecniche e quelle poetiche si alternano e si intrecciano fino alla conclusione dell’articolo, che descrive l’azione che guida secondo Nebbia tutto lo spettacolo: il “dolore” è il motore con cui “la paura della solitudine” si trasforma poi in “vocazione alla vita”.

Nel testo di Gaia Cenciarelli, che raccoglie la sfida della lettura critica, nonostante si faccia ricorso a parole e concetti simili (“dolore” su tutte), l’andamento del racconto è molto meno astratto. Sin dall’incipit: “Sì, certo, fa male”. Un’attestazione che è allo stesso tempo lettura di ciò che si vede e anche presa in carico, racconto (quasi) in prima persona. I concetti astratti evocati da Nebbia con precisione, qui si arricchiscono di attributi fisici, carnali (“istinto”, “mimica animalesca”, “dolcezza violenza”), affrescando la metamorfosi che secondo Gaia Cenciarelli è al centro del lavoro: il passaggio da movenze meccaniche (“ingranaggio”) a una danza animale, che esprime “sofferenza” ma anche desiderio di riscatto. Il racconto di Gaia Cenciarelli è un racconto caldo, che non invoca una posizione super partes, ma si domanda che ruolo ha lei, che osserva, in quello che accade (“non ci vuole molto a sentirsi chiamate in causa”). Certamente c’entra il fatto che chi scrive è una donna, ma nel resoconto compaiono subito quelle che sono le istanze profonde che muovo in corpi, secondo Cenciarelli: “la voglia di essere salvate”, “il desiderio di essere accettate”. Oltre a cercare forme evocative, nel rendere conto di qualcosa, per quanto si tratti di questioni interne, immateriali, l’autrice sceglie sempre una forma di descrizione che ha a che fare con un’azione (“il dolore rischia di annichilire l’anima”). L’azione intrecciata alla questione profonda, filosofica, che chiama in causa chi guarda non solo per descrivere ciò che vede, ma anche per capire che parte ha, è lo strumento di lettura di Gaia Cenciarelli che, da scrittrice, crede che ogni gesto abbia necessariamente dietro una storia.

Anche nel caso di Isabella Giustina, che presentava l’assolo “Mutamenti”, la principale differenza tra l’articolo di critica di Roberto Giambrone e il resoconto da scrittrice di Carmen Pellegrino è sul modo di trattare le categorie, più o meno astratte, che sottendono il lavoro. Nel caso di Giambrone, che realizza un articolo di classica e limpida analisi, tali categorie si intrecciano con terminologia tecnica e sono individuate, sostanzialmente, come dispositivi poetici che innervano lo spettacolo. Giambrone parla di “luci e ombre”, “sospensione e movimento”, “pudore e timore”, ovvero i due poli opposti attraverso quale si dipana la “metamorfosi”, il mutamento evocato dal titolo. Così Giambrone parla di “plasticità chiaroscurale delle forme”, di “contraction-release”, di “fall-recovery”, di “sequenze di movimento”; ed evoca una genealogia del “teatrodanza”, che arriva fino a Mary Wigman, la “pioniera della danza espressiva”. Questo armamentario di concetti tecnici, tuttavia, non servono ad eludere il racconto, ma a inquadrarlo nella storia della danza. Giambrone rileva anche gli aspetti caldi dell’assolo, dalla “profondità delle emozioni” alle “volute” disegnate da gambe e braccia, dall’evocazione di un “grumo oscuro dell’interiorità” a un “contatto primordiale col suolo”. Ricondurre all’alveo del raziocinio e dell’analisi ciò che “esplode” sul palcoscenico sembra essere la linea di resoconto del pezzo.

Carmen Pellegrino si muove su un campo diametralmente opposto. A partire dalla forma, che è quasi una lunga poesia che – ancora una volta – serve a rispondere all’immagine estetica, coreografica, a cui ci si è esposti. Il “corpo” della “danzatrice” è un termine – anzi, dei termini – ripetuto molte volte, quasi come in un mantra, che serve ad evocare poeticamente sulla pagina quello che si è visto prendere forma sulla scena. È il corpo di una “donna-bambina”, per stare ancora sul solco del mutamento, della trasformazione. È un elenco di aggettivi e stati, quello che riguarda il corpo esposto della coreografia, un corpo “preteso, abitato, ammassato, invecchiato, morto”. Un corpo “che non si arrende”. Attraverso l’elenco, che è forma classica tanto della poesia che delle avanguardie, Carmen Pellegrino dialoga col ritmo della scena e traccia, senza mai scadere nell’astratto, tutte le sfumature che secondo lei sono state attivate da quel corpo. Per spiegare l’emozione ricorre a parole desuete e conia neologismi (“discontrollo”, “percettologia”), ma nonostante siano termini che ricorrono ad una buona dose di astrazione – come accadeva nell’articolo critico – l’obiettivo non è la presa di distanza analitica, piuttosto è l’abbandono al flusso della percezione. E poiché la danza, come la poesia, non può dire tutto ma deve lasciare spazi all’evocazione, il testo procede con delle domande che tracciano il perimetro di quello che non si può dire altrimenti: “può essere raccontato un corpo straziato?”, oppure “come lo descrivi il corpo bloccato nel dolore?”. Carmen Pellegrino, come già Gaia Cenciarelli, si sente coinvolta, chiamata in causa, e per questo risponde attraverso la scrittura: il racconto diventa pian piano una lettera indirizzata alla danzatrice, “da donna sola a donna sola”. “O danzatrice, ti ricordi…?”, “O bimba, io ti osservo”. Di nuovo il corpo di Giustina incarna la metamorfosi dalla forza alla fragilità, dall’età adulta a quella infantile. Ed è un’esposizione che chiede e ottiene “pietà”. A un’immagine estetica, dunque, Carmen Pellegrino risponde con un’altra immagine estetica e così il corpo – parola che ricorre ben trenta volte nel testo – diventa “perimetro della nostra anima”.

Non è diverso il raffronto tra le scritture attorno a “Lunatico” di Massimiliano Balduzzi. Enrico Pastore, comincia il suo pezzo con una descrizione di ciò che avviene in scena: un convulso roteare del performer che pronuncia contestualmente le parole di una lingua che conosce lui solo. Il gruppo di parole “ruota”, “roteare”, “mulinare” vengono ripetute più volte. Ma prima di accennare una spiegazione analitica, Pastore disegna una mappa di associazioni poetiche ed estetiche: la lingua che ascoltiamo è una lingua “di sciamano”, che ha a che fare con la “parola magica”, così come il “corpo” ruotando produce un movimento ipnotico. Subito dopo l’evocazione, però, è l’analisi che occupa il centro e la fine dell’articolo. John Cage, Carmelo Bene, Antonine Artaud e Jerzy Grotoski sono i vertici di una genealogia teatrale che si incrocia con i dispositivi del teatro classico e contemporaneo, come il “training vocale” o l’attore chiamato nell’antica Grecia “hypokrites”, con tutto ciò che ne deriva in termini filologici. Il meccanismo di generazione di significato dal non significato, del “nulla da dire” – per dirla con Cage – che diventa la poesia che si dice, viene ricondotto a una serie di precedenti teatrali e artistici illustri, che hanno tracciato il solco lungo cui si iscrive anche “Lunatico”. Questa analisi, portata fino in fondo al pezzo, si apre proprio sul finale all’evocazione dell’emotività quando, in chiusura, evoca il “canto” che è in grado di far percepire la “mutevole ricchezza del mondo”.

Per Orso Tosco, scrittore, un’immagine è sempre e comunque l’innesco di una storia. Anche lui comincia con un ascendente artistico (George Perec). E anche lui parla di “voce” e “linguaggio”, di “rotazione” e “spazio”. Ma questi elementi sono il pretesto per una detonazione narrativa. Perché – si chiede Tosco – un uomo in camicia bianca e pantaloni si trova a roteare su se stesso pronunciando parole senza senso? È forse un “lavoratore in pausa” dal lavoro, oppure un “operatore finanziario” incappato nel burn out? Allora parole come “energia”, “sforzo”, “disperazione” sono gli elementi concretissimi della possibile storia di questo “dirigente di compagnia”, un Bartleby contemporaneo. Orso Tosco si lancia in una serie di possibili spiegazioni. Se quest’uomo sembra “stare male” forse è perché sta davvero male. È il risultato di un mercato del lavoro “competitivo e feroce”, che manda fuori di testa, ed ecco spiegata l’origine di questo “derviscio demente”. Cosa fare di una persona così? Licenziarla? Ma può diventare pericolosa… Ecco qui servita una storia articolata a partire da un gesto ripatitivo. Tosco immagina che “ritmo”, “gestualità” e “significato emotivo” del canto del derviscio e del suo ruotare siano un doppio movimento: da un lato la “vendetta” del lavoratore, che libera il linguaggio represso trasformandolo in canto, dando “giustizia” a una “voce prigioniera”. Dall’altro, la trasformazione in “canto” scioglie la stessa vendetta, che non è più un gesto violento, offensivo, ma si trasforma in “risarcimento”. Lo scrittore utilizza il lessico della lotta di classe, anche se la vicenda rimanda a una storia di lavoro contemporaneo. La immagina lui, a partire da un’immagine coreografica, che è quello che potrebbe fare un qualunque spettatore. Se cerca una spiegazione è una spiegazione di racconto e per questo anche le sue parole più astratte come “disperazione” – che è comunque un sentimento, e come tale concretamente visibile – sono sempre l’innesco di qualcosa di agito, oppure il risultato di qualcosa che è successo. Lo stesso avviene per le considerazioni dello stesso Tosco: “quest’uomo non smette”, è sempre un’azione quella che abbiamo sotto gli occhi. Ed è singolare che tutto questo nasca da un elemento formale – il costume del danzatore – che agli occhi degli esperti era apparso quasi come un simbolo puro, senza storia, e che in questa lettura di Orso Tosco torna ad assumere la funzione originaria del costume teatrale: evocare un contesto e un’epoca ben precisi.

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